Storie aziendali: Aep si racconta

Il primo a mettersi in gioco è Gianni Becattini, amministratore delegato dell’impresa

Con questo articolo, oggi apriamo una nuova rubrica aziendale. Uno spazio dedicato a quelle che sono le storie, gli aneddoti, professionali e non solo, delle persone che fanno parte di Aep Ticketing Solutions. Quelle stesse persone che sono motore di idee, progetti, prove sul campo, rete commerciale. Un team vincente, come provano i risultati sul campo. 

Gianni, cani e altre “grullerie”

Trenini e Meccano erano le “sostanze dopanti” che, alla fine degli anni ‘50, si somministravano ai ragazzi per spingerli su quella china che avrebbe dovuto portarli a diventare ingegneri. I genitori avevano dalla loro molte attenuanti. La guerra era finita da non molto e, nei film che ne parlavano, spesso l’eroe era uno scienziato o un ingegnere.

Nel mio caso quelle sostanze funzionarono benissimo. Nel complotto entrò anche il nonno, che negli anni Venti si era costruito una radio a Galena e che mi somministrò il libro “La radio per tutti” di Ernesto Montù, un ingegnere e “influencer d’altri tempi” molto noto a quei tempi in cui gli influencer si chiamavano divulgatori. Fu lui a darmi anche il componente chiave, il rivelatore a “baffo di gatto”, appunto con il cristallo di Galena. «Non usarlo però» – mi disse – «oggi hanno inventato un componente che si chiama diodo al germanio, che non richiede più di trovare il delicato punto di contatto come per la Galena». E dove lo trovavo io, ragazzino di prima media, un diodo al germanio? Diventai quindi l’incubo degli elettricisti della zona finché alla fine approdai al mio “pusher”: la ditta Paoletti che, oltre a residuati bellici, vendeva anche componenti elettronici. Dovetti imparare a usare il saldatore (che una volta presi anche dall’estremità sbagliata) e alla fine, novello Marconi, arrivai al mio signals received. Era fatta. Anche se iniziata col germanio, la mia dipendenza dal silicio non mi avrebbe più lasciato per tutta la vita.

Nel ’66 mio padre mi regalò un numero della rivista “Costruire Diverte”, poi “CQ Elettronica”, che, un po’ di anni dopo, avrebbe avuto un ruolo davvero determinante nella mia vita. Anche il mitico ‘68 mi venne incontro: dopo anni di insegnanti sadici e perversi che mi deridevano e additavano ai compagni di scuola come esempio da non seguire, un’improvvisa libertà forse eccessiva non contribuiva troppo a indurre comportamenti equilibrati…ma in parallelo ad altri libertinaggi, l’elettronica rimaneva sempre la mia fuga dalla realtà e arrivai a far pubblicare su CQ elettronica anche qualche mio modestissimo progetto, che mi fece sentire un premio Nobel.

Nel ’69 mi posi come obiettivo di realizzare un organo elettronico. Riuscii a trovare un pezzo di tastiera da pianoforte su cui montare dei contatti e delle molle e mi costruii 12 moduli, uno per ogni mezzo tono, ciascuno con un oscillatore e tre divisori a flip-flop in cascata per generare in tutto quattro ottave. Ci misi qualche mese ma alla fine ci riuscii. Peccato che non sapevo assolutamente suonarlo, ma la cosa mi interessava relativamente. Per progettare questo strumento avevo stressato oltre misura un povero tecnico della ditta “Brizzi e Niccolai” che vendeva strumenti musicali e poco dopo mi propose un organo elettronico da vendermi. Era per me un oggetto da favola: doppia tastiera da 5 ottave, pedaliera, moltissimi registri. Un vero organo classico che era montato nella chiesa di una nave e che era diventato …troppo vecchio per gli anni ’70 essendo interamente a valvole. Decisi quindi di investire i soldi delle vacanze nell’organo e in alcune lezioni di musica, che mi portarono, con mio grande orgoglio, fino ad accompagnare qualche messa in una chiesa. Ma non si sfugge al proprio destino: per la musica ero proprio negato e l’elettronica restava il mio grande amore. 

Ma fu proprio grazie alla musica che sostenni economicamente le mie attività tecnologiche. Mi occupai per la Sovrintendenza alle Gallerie di Firenze (oggi Beni Culturali) di catalogare gli organi musicali della provincia. Preso dalla passione, addirittura me ne comprai uno vero, con circa 500 canne, dalla parrocchia di Sant’Angelo a Lecore (Firenze). Costruito nel ‘700, era stato parzialmente danneggiato dall’alluvione del ’66. Ricordo che lo pagai 50.000 lire e una damigiana di vino! Dopo averne iniziato il restauro, non avendo più spazio per tenerlo, nel 1986 lo regalai alla chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze.

Dopo questo, mi dedicai a radio, orologi digitali (assoluta novità all’epoca) e iniziai a collaborare più assiduamente con la rivista CQ, dedicandomi alla RTTY ossia alla ricezione delle comunicazioni con telescrivente. 

Cervelli elettronici

Il mio primo contatto con i “cervelli elettronici” avvenne circa nel 1970. Il termine era già obsoleto, oltre che improprio ma, di fatto, la gente a quell’epoca li chiamava così. L’occasione fu un breve corso presso la Facoltà di Economia e Commercio in cui mio padre, in qualche maniera, era riuscito a farmi infiltrare. Anche se durò solo qualche giorno, fu per me un momento magico, di quelli che cambiano il resto della tua vita. L’insegnante, il giovane professore Gianni Aguzzi riuscì in poco tempo a infilare nella mia testa i primi rudimenti d’informatica e di FORTRAN e al tempo stesso accese la fiammella di una passione che avrebbe incendiato i miei anni a venire. Il fuoco era acceso, anche se covò per qualche anno sotto la cenere, fino a riprendere, prepotente, quando nel 1972, dopo due anni di non brillante presenza nei corsi della facoltà di Ingegneria, m’imbattei di nuovo nel professor Aguzzi. Il FORTRAN divenne in quel momento il mio primo grande amore.  

La mia storia inizia però solo qualche tempo dopo. Un mio compagno di studi decise di diventare mio complice, accettando di imbarcarsi nell’avventura di creare un computer tutto nostro.

Un pc si compone di due parti principali: una CPU e una memoria, più organi assortiti per l’ingresso e l’uscita dei dati. Sulla CPU convenimmo quasi subito sulla direzione da prendere. Eravamo entrambi riusciti a convincere i nostri genitori a dotarci di un HP-35, una calcolatrice elettronica tascabile o quasi, neppure programmabile, in verità, ma capace di calcolare seni e coseni. Decidemmo di usare per CPU il chip di un calcolatore tascabile, progettando dei circuiti capaci di simularne la tastiera e leggere i risultati dal display. Per la memoria la prima idea fu di usare un vecchio “eco acustico” (a valvole!), di quelli usati dai complessini beat, acquistato usato per poche lire. Era un oggetto con un cilindro rotante ricoperto con materiale magnetico, dove una prima testina scriveva il segnale audio e la seconda lo rileggeva con un ritardo proporzionale alla velocità di rotazione, producendo l’eco. L’idea era di trasformarlo per scrivere sulla superfice del cilindro una serie di bit che potessero poi essere riletti, ma non riuscimmo mai a metterla in pratica. La calcolatrice elettronica HP-35 del 1973 costava come uno scooter. Dovemmo quindi orientarci in altre direzioni. Alla fine qualcuno mi prese sul serio. Chiamai eccitatissimo il mio amico e gli dissi: «La Texas Instrument ci dà un chip per la CPU e alcune memorie, completi di tutta la documentazione!». Dopo infinite altre telefonate organizzammo il viaggio a Cittaducale, in provincia di Rieti, ove aveva sede lo stabilimento Texas e ce ne tornammo con molte promesse ma ancora con nessun pezzo di silicio. Furono necessarie altre telefonate e finalmente arrivarono i chip.

Andai a parlare con CQ Elettronica, di Bologna, che come ho detto ebbe poi un ruolo determinante in questa avventura, grazie soprattutto a Marcello Arias, che invece di buttarmi fuori con una pedata stampata nei pantaloni, accolse con entusiasmo il mio progetto. «Niente soldi però, eh!» – mi disse – «se non a lavoro finito. Ti farò conoscere però un po’ di persone che potranno aiutarti». Lo stesso giorno tornai verso Firenze con Gianvittorio Pallottino, esimio ricercatore, che scriveva su CQ con lo pseudonimo di Vito Rogianti, anagramma del suo vero nome. Estrasse dalla borsa il primo numero di Electronic Design che vidi in vita mia, aprendolo a una pagina ben precisa segnata da un angolo ripiegato. «Questo è quello che ti serve, una cosa assolutamente nuova che solo in pochi ancora conoscono, si chiama microprocessor». Guardai sbalordito la pubblicità dell’Intel 8008, un integrato quasi normale, con soli 18 pin, contenente tutta la CPU di un computer. «E dove le trovo queste meraviglie?» trovai il coraggio per chiedere. Per farla breve: CQ aveva un altro collaboratore, Ettore Accenti, titolare della Eledra 3S, all’epoca rappresentante della Intel in Italia. Mi prese a ben volere e mi offrì la possibilità di partecipare ai primi corsi che si tennero sui microprocessor e, meraviglia delle meraviglie, mi fece ottenere, in contemporanea con le più grandi industrie nazionali, uno dei primi campioni del mitico 8080, che nel frattempo aveva sostituito l’8008 e che sarebbe diventato il cuore di moltissimi home computer. Se lo avessi dovuto pagare, mi sarebbe costato 360 dollari di allora, più il necessario per le memorie e gli altri chip speciali. 

Correva l’anno 1974, ma i risultati erano ancora lontani da arrivare. Nel mese di maggio, mio padre mi portò con sé in un viaggio di lavoro a Londra. All’aeroporto trovai un numero di “Popular Electronics”, dove c’era la pubblicità dell’Altair, il primo microcomputer basato sullo 8080. Una pugnalata al cuore, non eravamo più i primi! Ma questo fu solo un incentivo a raddoppiare gli sforzi.

Per i primi del 1975 il “Child 8”, come battezzai il mio primo computer, iniziò a eseguire i suoi cicli macchina. Il prototipo venne presentato su CQ elettronica del maggio ’76. Le caratteristiche del Child 8 erano davvero modeste, ma allora sembravano addirittura avveniristiche: 1K di RAM statica, 1K di ROM con il monitor/debugger, interfaccia seriale a loop di corrente per la Teletype ASR33 acquistata usata e tutto su di una sola scheda. I programmi si scrivevano direttamente in codice macchina e si salvavano sul perforatore di nastrini della Teletype, alla sbalorditiva velocità di 10 byte al secondo! Tornai pertanto dall’ingegner Arias con l’aria da “missione compiuta” e in pochi mesi, nell’aprile 76, iniziarono a uscire gli articoli sulla rivista. Penso che davvero, in questo, fummo i primi in Italia. È difficile descrivere compiutamente la reazione che ne scaturì. Il mio telefono era rovente e i postini (allora si usava ancora scrivere) mi consegnavano, ingrugniti, le lettere in grossi e pesanti sacchi di iuta grigi.

Una piccola perla: nel 1974 mi presentai a un importante professore della mia facoltà per domandare di poter usare l’oscilloscopio del laboratorio. Chi è del mestiere sa quanto sia difficile lavorare senza. «A che anno sei?» – mi chiese -. «Al terzo» risposi. «No, è troppo presto, devi essere almeno al quarto e poi ascolta un buon consiglio da chi ne sa più di te: lascia perdere questa storia dei microprocessor, non hanno futuro». Neanche a dirsi, negli anni che succedettero sembrava quasi li avesse inventati lui.

La Micropi

Animato dal successo, aprii una cosa che oggi si chiamerebbe start-up, denominata Micropi e mi misi a vendere kit per autocostruire il Child 8, alla modica somma di 169mila lire.

Aggiunsi ben presto al catalogo una nuova scheda da 4K per l’espansione della memoria e, messomi in società con un compagno di studi, Stefano Giusti, e con un allora assistente universitario “illuminato”, Franco Pirri, poi diventato un ottimo e famoso professore, iniziammo a sviluppare un mucchio di nuovi accessori: come un’interfaccia video per il televisore, un’unità a disco (ben 80k!), un piccolo sistema operativo, linguaggi di programmazione ad alto livello. 

È curioso annotare che, anche se per certi versi precoce, rimanevo pur sempre un ragazzo di 25 anni e fui assai combattuto dalla tentazione di acquistare, invece del drive da 80k con il relativo controller, una Honda 500 Four che costava, nuova, esattamente la stessa cifra (1.125mila lire), ma che avrebbe avuto una presa ben diversa sulle ragazze! 

La General Processor

Il primo periodo, dal 1975 al 1978 vide una rapida espansione della Micropi, che dovette cambiare nome in General Processor (GP), in quanto già esisteva una precedente Micropi. Quello che più mi mancava sul Child 8 era un linguaggio ad alto livello, che realizzai artigianalmente scrivendolo tutto in codice macchina, compilandolo a mano su fogli di carta. Nacque così RPN-8, un linguaggio molto primitivo, fortemente ispirato a quello della serie HP-9800, che era il top della mia ammirazione. 

Il tempo passava e il gioco diventava sempre più serio. Il primo importante salto fu il passaggio al processore Zilog Z-80, allora al “top” delle prestazioni con clock a 2.5 o addirittura 4 MHz. Il primo sistema basato sullo Z-80 fu il “Child Z”, richiestissimo, anche per l’aspetto terribilmente complesso donatogli da un pannello ricco d’indicatori, deviatori e luci. Già allora avevo la passione per la grafica e mi ricordo che mi comprai tutta l’attrezzatura per la serigrafia. I primi pannelli li facevo io personalmente.

Dal punto di vista del software, dopo l’esperienza di RPN-8, agognavo di poter avere un vero linguaggio ad alto livello per il Child. Alla fine, non ricordo più come, qualcuno mi regalò un nastro perforato del Microsoft 8080 BASIC, quando ancora Microsoft non era Microsoft. Felicissimo, feci ogni sforzo per farlo funzionare sul Child. A prima vista funzionò, ma dopo prove più approfondite andava sempre in crash. 

Il vero, primo prodotto industriale fu il “Modello T”, quasi tutto dovuto alla matita del sottoscritto, che segnò una decisa svolta nell’evoluzione dell’azienda. Nato per costare poco, pur nella sua fabbricazione artigianale, inglobava tutto in un orrendo, pesante e monumentale contenitore in lamiera: video, 2 floppy, ovviamente opzionali, e un video monocromatico ma “professionale” (64 x 16 caratteri, poi passati a 24×80).

Oggi esistono gruppi di appassionati che restaurano i vecchi prodotti della General Processor (es. qui https://groups.google.com/g/it.comp.retrocomputing/c/O66LB-kOE_o?pli=1), mentre altri hanno addirittura realizzato un emulatore di Modello T. Tra tutti, e senza merito levare ad altri, voglio citare Piero Andreini, davvero un genio del bit e del restauro, cui suggerisco a tutti gli interessati di rivolgersi. Credo davvero che nessuno ne sappia più di lui, di queste vecchie trappole.

Nel 1982: dopo aver creato e fatto crescere la GP, riuscii a intuire per tempo che la ormai prossima esplosione del fenomeno “personal” ci avrebbe travolti; decisi quindi di uscire dalla società. Avevo visto bene: nel 1985 la General Processor chiuse definitivamente i battenti, lasciando in qualche migliaio di utenti il ricordo di un computer bruttissimo ma capace di suscitare quelle emozioni indimenticabili che possono appartenere solo a un momento storico irripetibile.

Transizione

Dal 1983, pur occupandomi di altre attività imprenditoriali di tipo commerciale (Commodore 64 e Spectrum 64 in primis), mi dedicai nei ritagli di tempo a creare qualcosa per la gioia degli hobbisti. Nacque così nel 1983 il G5, un personal computer amatoriale il cui progetto uscì ancora una volta su CQ e che ebbe, nel suo genere, un grande successo (il numero era non per caso consequenziale al GPS- 4). Era di una semplicità sbalorditiva; le buone prestazioni erano dovute a un interpreter BASIC, tutto scritto in assembler Z80, che gestiva anche un display grafico (e per questo detto GBASIC), all’epoca non così comune. Per fare un raffronto, aveva prestazioni ben maggiori del coevo e assai più costoso HP-85. 

Nel 1989 m trovai a dovermi inventare una nuova attività, che con poca fantasia chiamai Studio IGB, cominciando a progettare hardware e software per uso industriale. Il GBASIC fu la base di partenza e finì per equipaggiare decine di progetti. Per lungo tempo ha lavorato, ad esempio, anche sulle catene di montaggio della Fiat e in molte stazioni di servizio autostradali, fino a essere sostituito nella sua missione dal sistema operativo Mxm.

Logitron

Tra i miei clienti c’era Logitron, un’importante azienda fiorentina attiva nell’automazione delle stazioni di servizio. Nel 1993, Logitron realizzò un POS e si mise alla ricerca di un sistema operativo di cui dotarlo. La cosa mi galvanizzò non poco, e alla fine riuscii a ottenere che la scelta di Logitron cadesse proprio su Mxm e il suo Software Developer’s Kit.

Per i curiosi scherzi che fa la vita, nel 1993 Logitron, tra le varie diversificazioni che aveva intrapreso, firmò contratti con ATAF Firenze e CAP Prato per realizzare (forse) i primi Sistemi di Bigliettazione Elettronica italiani, basati su smart card a contatti, riciclando la tecnologia usata per le carte del carburante. Poiché l’esperienza Mxm era stata ritenuta positiva, le nuove validatrici elettroniche avrebbero avuto anch’esse il mio sistema operativo.

Il POS Logitron, detto POLO, fu uno dei primi prodotti “importanti” dotati di Mxm.

E poi, d’improvviso, AEP

Nel 1998, Logitron fu ceduta al gruppo internazionale Gilbarco Veeder Root. I nuovi proprietari non erano interessati a proseguire l’attività nel campo della bigliettazione. Fu così che trovammo un accordo: io, con il mio cane Otto e con altri soci, avrei costituito una nuova società, la AEP, mentre Logitron ci avrebbe ceduto le attività del settore Monetica, come allora si chiamava. Così avvenne e così iniziò la storia che ci ha portato ai giorni nostri, passando per l’acquisizione del ramo Monetica di Finmeccanica/Leonardo. Qualche anno dopo, senza che ci fosse un piano organizzato, i vecchi proprietari, Saverio Bettini e Franco Margani, entrarono a far parte del capitale di AEP, svolgendo un ruolo determinante per il successo dell’azienda, che per più di 20 anni ha costituito la mia attività principale e di cui sono oggi AD assieme a Saverio Bettini. Molte cose sono cambiate: Mxm è stato sostituito da Linux, Otto non c’è più e, considerando l’indotto, sono oggi quasi 200 le persone che continuano l’opera a suo tempo iniziata.

Quello che non è cambiato è lo spirito, che è rimasto sempre volto all’innovazione. E da pochi giorni il mio vecchio organo a valvole, per una serie fortunata di coincidenze, è tornato a casa dopo cinquant’anni dal suo acquisto. Non è in forma smagliante: un lavoro pronto per la pensione.

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